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ID 5
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TITOLO L’area della riservatezza e il diritto all’oblio
CORPO DEL MESSAGGIO Il diritto all’oblio, inteso come il diritto ad essere dimenticato in quella dimensione che pure si era resa legittimamente pubblica o comunque non più privata, si colloca senza dubbio nell’area della tutela della riservatezza, pur presentando rispetto a questa ultima, talune peculiari specificità. un fatto rimane nella sfera privata della persona, non solo quando la notizia, il documento o l’immagine che la riguardano circolano da privato a privato, ma anche quando la notizia abbia avuto un ambito di diffusione e di notorietà, ben più ampio di quello che avrebbe potuto avere, circolando e diffondendosi da privato a privato. Non c’è diversità di tutela tra una notizia mai pubblicizzata e una notizia che abbia avuto legittima notorietà e pubblicizzazione. Il diritto all’oblio può, inoltre, sollevare anche problemi in materia di tutela dell’identità personale, in quanto la riproposizione di un fatto passato nel presente non fa altro che attualizzare nuovamente il fatto stesso, anche se la persona è, in effetti, talmente cambiata da non essere più la stessa persona che ha compiuto il fatto o che, comunque, vi si è trovata coinvolta. A conferma di questo, basta sottolineare quanto stabilito dall’ordinanza della Pretura di Roma del 10 febbraio 1988, secondo cui costituisce violazione del diritto all’identità personale l’utilizzazione di immagini di un’attrice, risalenti ad una fase della carriera ormai superata dalla nuova connotazione artistica e professionale data alla sua attività. Tale accezione del diritto all’identità personale, inteso come diritto della persona ad una proiezione di sé nel sociale il più possibile corretta, in relazione al suo attuale modo di essere, di gestire la propria vita, di agire, di pensare, contribuisce a fondare un diritto. Il primo caso giurisprudenziale italiano di riconoscimento del diritto in questione è offerto, seppur indirettamente, dalla sentenza del Tribunale di Roma 15 maggio 1995. Il caso in esame riguarda la ripubblicazione da parte del quotidiano "Il Messaggero" di alcune prime pagine relative ad anni precedenti a fini promozionali e di gioco. Una delle prime pagine riprodotte, è quella del 6 dicembre 1961, in cui, accanto alla notizia su cui era imperniato il concorso della settimana, si riferisce anche della confessione di un omicidio, con l’indicazione del reo nel titolo e nella fotografia. Questo il fatto: la persona in questione, aveva scontato la pena ed anzi era tornata anticipatamente in libertà, avendo ottenuto dal Presidente della Repubblica un provvedimento di grazia condizionale in virtù del suo comportamento irreprensibile ed operoso; da quel momento egli si era positivamente reinserito nella società tanto sotto il profilo personale ed affettivo, quanto sotto il profilo lavorativo. Con la ripubblicazione della notizia il soggetto si accorge di essere diventato, oggetto di diffidenza da parte delle persone che lo circondano e perde il posto di lavoro. A questo punto egli cita in giudizio la Società Editrice "Il Messaggero" per farsi risarcire tanto i danni patrimoniali quanto quelli morali ed ottiene ragione dal Tribunale civile: viene ravvisato il reato di diffamazione a mezzo stampa, riconoscendo il diritto al risarcimento dei soli danni morali. Il Tribunale perviene a questo esito basando la propria decisione sull’esigenza di bilanciare la libertà di manifestazione del pensiero, in particolare il diritto di cronaca di cui all’art. 21 Cost., con la tutela dei diritti inviolabili dell’individuo e, più precisamente, con il diritto alla pari dignità di ogni cittadino ex art. 3 Cost. Il Tribunale, affermata, perciò, l’esistenza di un’ipotesi di diffamazione, riconosce il risarcimento dei danni morali, quantificandone l’ammontare in dieci milioni di lire, mentre ritiene non provato il lamentato danno patrimoniale, sussistendo forti dubbi sull’effettivo verificarsi del licenziamento. La sentenza, profondamente innovativa sul piano degli esiti, pure arrivando a tali conclusioni in modo tradizionale e non del tutto convincente, può essere considerata, come accennato precedentemente, il primo caso giurisprudenziale italiano di riconoscimento del diritto all’oblio. Un altro caso in cui riecheggia il diritto all’oblio e il caso "Braibanti", riproposto da Sandro Curzi per la serie "Grandi processi". Quella di Braibanti, intellettuale di sinistra, allevatore di formiche e studioso di Spinoza, fu una storia che suscitò grande scalpore alla fine dei movimentati anni sessanta e fu la prima ed unica condanna per plagio (nei confronti di uno studente liceale) in Italia. Da allora sono passati trenta anni. Nel frattempo, la Corte Costituzionale ha abolito il reato di plagio, ma questa storia fa ancora cronaca e Curzi la voleva per il suo programma. Tuttavia, Giovanni Sanfratello, l’allora studente plagiato, oggi cinquantenne, residente a Milano e traduttore di professione è stato esplicito nel negare il suo consenso alla trasmissione del programma, affermando il suo diritto all’oblio. Ancora una volta torna a porsi la stessa questione: diritto di cronaca o diritto all’oblio? la Rai, citata in giudizio da Sanfratello, si e dovuta rimettere alla decisione del Tribunale, prima sezione civile di Roma3, che si e pronunciato stabilendo per la trasmissione del programma non in forma integrale, ma con opportuni tagli. Anche da questa decisione si può intravedere, quindi, un riconoscimento del diritto all’oblio, seppur ancora allo stato embrionale, in quanto la sentenza in esame, come anche quella del Tribunale di Roma del 1995 precedentemente citata, non si discosta dal quel consolidato orientamento giurisprudenziale che risolve ogni attentato ai diritti della personalità in un problema di lesione penale dell’onore o della reputazione. Accertato che il diritto all’oblio esiste, occorre vedere in che modo esso può essere inserito nell’abito dei diritti della personalità e, successivamente, in che modo può essere meglio tutelato.
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